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  IL LICEO ARIOSTO AD AUSCHWITZ

Roberto Dall'Olio

 

 

Il Liceo Classico "L. Ariosto" di Ferrara dove insegno Storia e Filosofia è particolarmanete impegnato nella difficile arte di ricordarsi di ricordare e di onorare dunque la memoria. Fra le azioni deputate a tale fine da vari anni è forte l'impegno di visitare i campi di sterminio. Per quanto mi riguarda nell'ultimo triennio sono andato due volte, con gli studenti, ad Auschwitz. Abbinando la visita ai campi di sterminio con la conoscenza di Cracovia e di Praga per un approfondimanto della vita e della cultura dell'Europa dell'Est. Compito importante per quella costruzione dell'identità comune europea che non è certo così scontata. Vorrei anche sottolineare che oltre a svolgere la professione di docente sono assessore all'intercultura per il comune di Bentivoglio (BO) ove risiedo e ricopro la carica di Presidente della sezione dell'ANPI. Inutile dire che Auschwitz è un luogo purtroppo unico al mondo e, anche se il tempo e le ondate turistiche hanno un poco sminuito la sua carica di orrore, quando si varca il famigerato cancello si è invasi dalla ferrea volontà di distruzione, dalle testimonianze che la inchiodano nella storia, dalle imagini e dall'atmosfera gelida e disumana che quel luogo, l'"Anus mundi" come l'aveva ribattezzato Primo Levi, emana. Aggiungo solamente che avevo stretto amcizia con Elisa Springer, scrittrice e deportata ad Auschwitz di cui è testimone nel libro – documento "Il silenzio dei vivi" edito da Marsilio. Adesso Elisa Springer non c'è più e neppure suo figlio Silvio alla cui memoria dedico queste righe e tesimonianze.

 

 

 

TESTIMONIANZE DELLE CLASSI 4 Y E III B IN VISITA AD AUSCHWITZ

 

Tre parole accolgono il nostro ingresso nel campo: << Arbeit macht frei >>, << Il lavoro rende liberi >>.

Appare chiaro come questo motto inneggiante alla disciplina del Lager sia in realtà strumento di scherno, poiché è dal lavoro che parte la morte per i prigionieri del campo di concentrazione di Auschwitz.

Varcato il cancello di ferro battuto, davanti a noi compaiono i primi Blocks, fabbricati di mattoni che accoglievano i deportati, disposti ordinatamente l’uno a fianco dell’altro nella stessa fredda schematicità che risiedeva nella volontà degli esecutori dello sterminio. L’intero Lager è circondato da recinzioni di filo spinato, tramite le quali veniva fatto passare un alto voltaggio di corrente per impedire la fuga degli internati, e a regolari intervalli si stagliano le torrette di avvistamento delle SS. Entriamo in diversi Blocks, ormai adibiti a musei, dove vengono conservati gli effetti personali dei prigionieri che, convinti di essere condotti al lavoro, portavano con sè indumenti, denaro e tutto ciò che sarebbe potuto loro servire lontano dalle proprie case.

Intere stanze sono occupate da questi oggetti: scarpe, occhiali, vestiti, e molti di noi non restano impassibili di fronte a una teca di ampie dimensioni che raccoglie due tonnellate di capelli un tempo appartenuti alle prigioniere, utilizzati nella produzione di tappeti. Lungo le pareti sono appese numerose fotografie dei deportati, poiché, nei primi periodi del Lager, veniva tenuto un preciso resoconto del numero dei prigionieri, delle date del loro arrivo al campo e della loro morte; questa pratica venne in seguito abbandonata prediligendo un sistema di assoluta anonimità di coloro che stazionavano ad Auschwitz e della durata della loro permanenza, cancellando così ogni traccia dello sterminio perpetrato.

Ci avviamo poi verso un  basso edificio di cui in lontananza si riconosce il profilo del camino, sappiamo quindi che ci stiamo dirigendo verso le camere a gas. Il nostro accompagnatore racconta come i prigionieri venissero ammassati a centinaia dentro questa struttura, convinti di andare alle docce per la disinfezione: in realtà nell’ambiente, una volta sigillato dall'esterno, veniva introdotto mediante il sistema di aereazione un potentissimo gas venefico, lo Zyklon B, da un gruppo di detenuti, il sonderkommando, anch’esso regolarmente sterminato mediante le selezioni.

A fianco, vediamo i forni dove ogni giorno venivano cremate centinaia di corpi in seguito alla “disinfezione”; le bocche di metallo ora contengono fiori e ricordi.

Terminata la visita ad Auschwitz I, ci rechiamo a Birkenau, noto anche come Auschwitz II, a pochi chilometri dal campo centrale.

Ai nostri occhi attoniti appare una smisurata distesa di baracche in legno, che si estendono per una superficie di quaranta chilometri quadrati al di là del reticolato: di alcune rimangono oggi solo le fondamenta, in seguito alle frequenti incursioni aeree e degli inconcludenti tentativi di distruggere ogni traccia del genocidio.

Le baracche inizialmente erano destinate all’uso di stalle, e dove inizialmente non potevano trovarsi più di un centinaio di cavalli per ogni fabbricato, successivamente risiederono quasi mille persone prive di ogni servizio igienico e di una qualsiasi fonte di riscaldamento, costretti a dormire su tavole di legno ricoperte di giacigli di paglia, pochi palmi per ognuno.

All’entrata del campo rimangono i binari che conducevano i convogli carichi di deportati, e sugli stessi binari avveniva spesso una sommaria selezione: chi scendeva da un lato del vagone veniva giudicato adatto al lavoro, mentre coloro che sceglievano il fianco opposto, venivano condotti alle camere a gas, senza operare una minima forma di distinzione tra giovani e vecchi, malati e anziani; questo era il valore di milioni di vite umane spezzate dal volere di pochi.

 

In totale, circa un milione e centomila Ebrei furono deportati ad Auschwitz insieme a circa 200.000 altre vittime, inclusi 140.000-150.000 Polacchi non-Ebrei, 23.000 Rom e Sinti (Zingari), 15.000 prigionieri di guerra sovietici e 25.000 civili di diverse nazionalità (Sovietici, Lituani, Cecoslovacchi, Francesi, Jugoslavi, Tedeschi, Austriaci e Italiani).

Di tutto questo deve rimanere memoria, affinchè mai più l’uomo perda la coscienza di ciò di cui noi oggi siamo chiamati a essere testimoni, con la speranza che l’umanità non torni a macchiarsi in futuro di una simile colpa.

 

MICHELA CARDINALI PER LA 4 Y

 

 

 

Ho voluto partecipare anch'io cedendo alla tensione espressiva e per dimostrare che anche i professori hanno un'anima... ricordano le creature più indifese e subito toccate dalla morte: i bambini.

 

Poveri

Poveri bambini

Sorridenti

Sbarcati al capolinea

Di viaggi bestiame

Poveri bambini

Pieni di fame

Sorridenti nelle foto

Della propaganda

Sorridenti

Fino alla fine

Alla vile bugia

Di una doccia

Che li faceva

Concime

 

 

Ho voluto qui ricordare l'unica creatura vivente che idealmente rimane fissa testimone del forno crematorio di Auschwitz: un grande pioppo

 

Il pioppo di Auschwitz

Ha radici gonfie

Intrappolate nell’orrore

Da obitorio

Lui il testimone muto

Del forno crematorio

 

 

Così ho voluto chiudere il mio voltare le spalle a quel cancello

 

E adesso che te ne sei andato

Che chiusi i cancelli dell’inferno

Gli occhi hai pianeti

Di soli eclissati

Adesso che sei solo

Coi nomi

Il freddo

I volti rasati

Adesso sai

Perché gli appelli

Li hai sempre odiati

 

 

E per Elisa Springer che fu anche staffetta partigiana e, tradita, venne poi deportata ad Auschwitz ho voluto scrivere queste parole, particolarmente vicine al suo incredibile atteggiamento verso i suoi carnefici, piene di luce e di immensa umanità.

 

Elisa la tua fede

maturata

nella botte del silenzio

sembrava semplice

sulla tavola

della cena

invece poi

scendeva puntuta

lungo la schiena

con lo stupore

di come narravi

degli aguzzini

senza rancore

 

 

PROFESSORE ROBERTO DALL’OLIO

POESIE  AD  AUSCHWITZ

 

 

 

Segue una poesia di una studentessa, Elisa Bentivogli, che mette in risalto un altro aspetto terribile di Auschwitz, l'ipocrisia.

 

 

L’orchestra

 

Una donna nella casa serena compone una valigia

Che non aprirà mai.

Uomini preparano i loro strumenti da lavoro,

Ignari.

Non li useranno mai.

Una madre ordina i vestitini del bimbo.

Inconsapevole. Non sa dove lo condurranno.

Tutto è pronto per la partenza

Che non conosce ritorno.

Oggi in quel luogo c’è una fotografia

Appesa alla fredda e monolitica parete,

È un’immagine che racconta di bambini

dagli occhi tranquilli.

Ingannati. Non li accompagnavano a fare la doccia.

Come testimoni stipati in vetrinette

Rimangono corredini di bimbi

Che non diventarono mai grandi.

Dov’è quel luogo?

Quel luogo dove scarpe e valige

Creano montagne di cuoio,

Quel luogo dove fluiscono fiumi

Di capelli umani tagliati per farne tessuti?

Non è lontano da noi e ritorna ogni volta che gli uomini

Gettano fango sul diverso,

Con occhi velati di oblio

Dimenticano il rispetto

E camuffano la loro insensata ideologia

Con una grandiosa orchestra.

Oggi vediamo il luogo della sconfitta dell’umanità,

Il trionfo del brutale inganno.

Ma ecco che il pianto di un bambino

Ci ricorda che può essere ancora

Un mondo stupendo.

 

ELISABETTA BENTIVOGLI PER LA III B

 

 

 

 

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